giovedì 31 marzo 2011

Piccole soddisfazioni culinarie: torta alle fragole con yogurth


INGREDIENTI 100 grammi di zucchero 180 grammi di farina 3 uova 150 grammi di fragole 200 grammi di yogurth bianco cremoso una bustina di lievito per dolci un limone, un pizzico di sale burro (per infarinare la tortiera)







PROCEDIMENTO Lavare le fragole e tagliarle a metà. Dividerle in due ciotole in parti uguali, metà serviranno per guarnire la torta. Grattugiare finemente la buccia del limone. In una terrina, mettere zucchero e uova, una per volta. Mescolare con un cucchiaio di legno. Unire la farina a piccole dosi, lievito e sale. Aggiungere lo yogurth (non tutto, lasciatene una parte minima per la decorazione finale) e la scorza del limone. Aggiungere le fragole (una delle due ciotole), tagliandole a pezzetti piccolissimi. Mescolare ancora. Imburrare e infarinare una tortiera ed infornare a 180° per circa 40 minuti. Una volta cotto, lasciate raffreddare il dolce, poi copritelo con uno strato sottile di yogurth e decorate con le fragole a rondelle o a striscette.

giovedì 3 marzo 2011

Ci sono donne e donne, pubblicità e pubblicità, uomini e uomini



Ormai parlano tutti della maxiaffissione con lo scatto di Terry Richardson realizzato per Silvian Heach. Sempre nella stessa campagna, un altro soggetto raffigura due ragazzine con un ghiacciolo (una specie di calippo di evidente forma fallica) che ammiccano provocanti. L’occhio cade proprio lì, su quelle affissioni XXL, non c’è dubbio. A Genova il Comune è riuscito a farsi prendere in giro, spostando leggermente l’attenzione grazie ad una risata, non accorgendosi che la celebre modella con il sedere al vento era stata piazzata proprio accanto all’invito con cui si raccomanda di fare shopping in città. Sono arrivate le scuse ufficiali, ma ormai la gaffe era stata fatta.

Solita domanda: che effetto fa un soggetto del genere? Personalmente, per di più in questo periodo, nessun effetto. Per quanto mi riguarda, l’idea che mi faccio in questi casi è che il brand non abbia sex appeal e allora sfrutti quello di un pezzo di carne in bella mostra. Sia chiaro, il nome del marchio io l’ho dovuto cercare per l’ennesima volta perché non mi è venuto ancora in mente. Ignoranza, direte voi. E allora controbatto immediatamente: non è la pubblicità a dovermi fissare in testa di comprare proprio quel vestito, quella borsa, quelle scarpe? Se è così, per quanto mi riguarda, ha fallito in pieno. Certo, ne sentirò parlare ancora parecchio e, volente o nolente, quel brand lo ricorderò.

In compenso, ho aguzzato ancora di più la vista. Mi è capitato tra le mani Vanity Fair, il numero del 2 marzo. Tra le lettere della posta al direttore, eccone una che mi ha colpito. “Dalla copertina all’ultima pagina, il vostro giornale è pieno di belle donne in pose sexy, con abiti provocanti. Essendo questa, immagino, una rivista prevalentemente dedicata alle donne, secondo lei le donne si sentono rappresentate da questi modelli? O forse, visti anche i tempi che corrono, servirebbero un po’ meno ‘tette e culi’ e più notizie e punti di vista?”. A scrivere era un uomo, sia chiaro, di cui comunque non riporto il nome. Ed ecco la risposta, ne riporto qui uno stralcio: “Io credo che sia molto difficile – quando si parla di rappresentazione del corpo femminile nei media – tracciare una netta demarcazione tra il bianco e il nero, tra il rispettoso e l’offensivo: le sfumature contano, e conta la soggettività. Il corpo liberamente mostrato non ha, in sé, nulla di volgare”.

Guardate allora che bella pubblicità di Chanel ci viene rifilata a poche pagine dalla copertina di Vanity Fair.



Si commenta da sola, credo. Ma la risposta ai lettori, quella sì che merita di essere commentata. L’interpretazione conta eccome! Ma chi volete prendere in giro? E il mostrato ha molto, moltissimo, di volgare se vuole alludere chiaramente alla pornografia. Cosa ricordano, altrimenti, certi scatti? Le foto della prima comunione? Che poi a molte donne piaccia farsi guardare e che le modelle abbiano un rapporto disinibito con il proprio corpo, sono due discorsi a parte. Ma credo che la maggior parte delle lettrici di Vanity Fair siano alla ricerca di modelli, di star che dicano “anche io ho un difetto, anche io sono come te” e non prendano bene il fatto di ritrovarsi su una pagina sì e una no un’espressione ammiccante, due coscettine denutrite rigorosamente posizionate ad angolo piatto e vestiti che non coprono affatto, pur essendo – in teoria – i protagonisti delle foto.
La conclusione, però, è amara. Il vero problema è che ci siamo abituati a tutto questo. Noi donne, peraltro, sappiamo benissimo che i nostri uomini – tutti, sia chiaro – si lasciano scappare lo sguardo sulla merce in offerta in tv, sui giornali, sulle affissioni delle nostre città e anche per strada, quando qualcuna ha voglia di farsi notare e allora lascia magari il perizoma in bella vista. Il valore che i nostri uomini danno a quella merce è di gran lunga minore di quello che danno a noi (se non è così, ecco un buon motivo per sbarazzarcene). E allora non ci arrabbiamo. Perché dovremmo? Semplicemente, continuiamo a ritenerci diverse, persone e non pezzi di carne, dentro una categoria che ci permette di avere i nostri rotolini di ciccia, i capelli crespi, le infradito e le unghie mangiate. Eppure piacciamo così, ne siamo convinte. Gli sguardi provocanti? Certo che sappiamo sfoggiarli, ma sappiamo bene quando ci rendono dei fenomeni da baraccone.