giovedì 23 giugno 2011

D’ANNAzione del giorno: giornalisti, di precarietà si muore!



Quando - già qualche anno fa, prima della crisi - dicevi di voler fare il giornalista, capitava spesso che ti dicessero “è dura” o “fino a quarant’anni non sarai nessuno”. La reazione era, almeno per quanto mi riguarda, un invito a tirar fuori tutta la grinta possibile e a dimostrare di farcela. Poi, strada facendo, ci si rende conto che è davvero dura, ma più dura del previsto. Non perché il lavoro sia un inferno, non perché il cervello non funzioni, non perché non ci si senta all’altezza, ma perché il merito non è l’unica variabile per poter conquistare la possibilità di provare a diventare ciò che si vuole.

Succede anche per altre professioni, credo, ma posso parlare per me. Trovare qualcuno che creda nelle capacità di un giovane volenteroso che sogna questo lavoro da una vita è quasi impossibile. Chi ha la sua poltrona – anche qui – se la tiene stretta, tanto gli ultimi arrivati sono ben disposti alla gavetta, lo sapevano già da prima. Fin qui nessun problema, ordinaria routine. Solo che adesso, nell’era di Internet e dei mille siti di informazione o presunti tali, essere un giornalista significa sperare che il destino metta in mezzo alla strada la scheda della tombola fortunata. Puoi mandare mille cv, ma serve di più. Serve conoscere chi è già nell’ambiente magari, tanto per cambiare. A questo punto, a cosa servono la grinta, la volontà, la costanza e la bravura?

Il giornalismo bisogna averlo dentro, ma ormai non conta più. Se ti senti un giornalista dentro, non importa. Vedrai sfilarti davanti tanti che nemmeno conoscono la grammatica e ancora si chiedono se si scrive “valige” o “valigie”. Ma tanto c’è Internet per scoprirlo.
E così c’è una massa infinita e informe di collaboratori che nemmeno si possono definire “precari”. Scrivono online per quattro soldi, sperano un giorno di risollevare le loro sorti, aspettano una chiamata che non arriva, sfogano la loro capacità sui blog perché altrove non gli è concesso, appartengono ad una categoria che in realtà non li riconosce. Perché lo fanno? Perché si sentono giornalisti, non importa se non hanno ancora un tesserino.

Ma oggi la differenza tra chi è un giornalista e chi lo fa è sempre più evidente. Anzi, spesso chi lo è rinuncia perché non arriva alla fine del mese e cambia lavoro versando lacrime amare, mentre quello che avrebbe dovuto essere il suo posto è occupato da scribacchini qualsiasi, che fanno i giornalisti perché è un lavoro come un altro, forse meno faticoso.

Leggo la notizia della morte di un giornalista precario di 41 anni. Si è impiccato e sono molti i colleghi – non precari, mi viene da immaginare – che sottolineano la fine di una storia d’amore. Pierpaolo era depresso, Pierpaolo era rimasto solo, Pierpaolo viveva al Sud, nella parte dell’Italia dove non si trova lavoro. E invece io credo che, quando una relazione finisce, se puoi aggrapparti al lavoro riesci a risalire, in qualche modo. Ma se quel lavoro è l’ennesimo fallimento – e non per colpa tua – allora ti senti proprio uno straccio. A 41 anni Pierpaolo si sarà sentito finito, incapace di ottenere ciò per cui ha lottato. “Se vivi in Puglia, cosa pretendi? Vieni al Nord, qui sì che è tutto diverso!”, sembrano trasudare quelle righe.

Ma la cosa che mi fa più rabbia è che oggi in piazza non c’è nessuno a difendere la dignità di quest’uomo che, probabilmente, come me e come tanti, adorava scrivere, adorava raccontare, e si è scontrato con lo schifo di mondo che ci stanno rifilando. Quanti articoli si meriterà ora? Quanti servizi in tv? L’Ordine dei Giornalisti della Puglia gli ha dedicato un minuto di silenzio e parole di comprensione.

Troppo tardi.

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