Mentre scrivo, il Parlamento italiano è pieno. In tv la diretta riprende il frenetico vociare, gli schiamazzi, il brusio.
E anche molti altri dettagli che dovrebbero far riflettere.
E’ una seduta cruciale, almeno sulla carta. Sappiamo che il governo Berlusconi otterrà ancora la fiducia per andare avanti, quindi è molto facile lasciarsi distrarre dal contorno.
Il contorno, è bene ricordarlo, è fatto di facce, di persone con un nome e un cognome che abbiamo eletto noi, noi che stiamo fuori a cercare di capire chi dice la verità, chi bara, chi recita, chi potrebbe condurci fuori dal tunnel. Tutti e nessuno, lo sappiamo.
Durante le dichiarazioni di voto, la scena che si presenta è raccapricciante, tipica del Parlamento a dire la verità, ma comunque indecorosa.
Prendere la parola significa parlare al vento. Di ascoltare non se ne parla nemmeno. C’è chi sbadiglia, chi cammina su e giù per le scale, forse per sgranchirsi le gambe dopo la fatica (è un lavoro logorante, non dimentichiamolo!). E poi c’è chi manda e-mail dal suo pc portatile di ultima generazione, chi chiacchiera con il vicino di banco, chi ride a squarciagola.
Le peggiori sono sicuramente le donne della maggioranza che si preoccupano di ritoccarsi il trucco leggermente sbavato, che si puliscono gli occhiali per tenersi occupate, si guardano lo smalto, si portano qualche ciocca di capelli dietro le orecchie, poi la spostano ancora, poi si accomodano meglio sulle poltrone e protendono i seni in avanti accavallando le gambe.
Queste persone ci rappresentano. L’abbiamo voluto noi. Le abbiamo votate, con la solita inerzia, con la solita X.
Abbiamo votato anche quelli che urlano frasi incomprensibili a noi da casa mentre a qualcuno è data la parola. Anche quelli che, mentre si parla di costituzione, unità d’Italia e sacrifici da partigiani d’altri tempi, annuiscono sapendo che il giorno dopo saranno in piazza a bruciare il tricolore.
Si parla di aziende, di conti che forse tornano o forse no, di una realtà che solo noi conosciamo, solo noi che stiamo fuori da quell’arena tutta arazzi e legno pregiato.
E allora, mentre l’oratore di turno fa il suo piccolo spettacolo, non pensiamo più alle tragedie di tutti i giorni, alle tasche vuote, al lavoro che non c’è e se c’è non prevede la comodità di una poltrona rossa. Non pensiamo alle fabbriche che chiudono, non pensiamo agli striscioni dei precari, non pensiamo ai bambini che non riceveranno un’istruzione adeguata né al mutuo da pagare.
Prendiamoci un po’ di libertà per sognare.
Sogniamo di avere una bacchetta magica e di poter svuotare quel Parlamento. Sogniamo poi di poterlo riempire di progetti, di idee, di desideri, di sogni.
I nostri. E sogniamo anche che, al posto di quegli ometti dai capelli bianchi e dalle schiene gobbe, ci sia qualcosa di diverso. Sogniamo che ci sia il futuro là dentro, non il solito passato pieno di polvere e rancori.
Sogniamo di esserci, proprio noi, domani.
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