E’ ormai passato qualche giorno dall’ennesima alluvione che ha colpito Genova. Ero lontana, a Milano, ero lontana anche l’anno scorso quando un’ondata di fango simile aveva mandato Sestri Ponente sott’acqua.
Noi genovesi siamo legati alla nostra città in maniera morbosa, l’ho pensato parecchie volte mentre su Internet vagavo da un sito all’altro nell’affannosa ricerca di notizia. Siamo legati ad ogni angolo, ad ogni muro screpolato, ad ogni aiuola, ad ogni insegna, anche a cose che non hanno valore storico, ai brutti palazzi degli anni Cinquanta e Sessanta che hanno accolto tanti genovesi in questi anni mentre la città cresceva.
Oggi siamo in tanti ad essere andati via, ad aver un po’ maledetto Genova per non essere stata capace di assorbirci tutti, noi lavoratori che viviamo con la valigia in mano per tornare a casa il più possibile.
Casa. Sarà sempre quella la nostra casa, quelle strade che oggi sono ancora coperte dal fango o, dove la fortuna è stata maggiore, sono ancora bagnate e ricordano che poteva andare ancora peggio. Ad andare sott’acqua sono state poche strade in confronto al labirinto di vicoli e vie che rende Genova ciò che è, ma quelle strade le abbiamo considerate nostre sin dal primo istante in cui la furia della natura ha scalzato l’uomo.
Colpisce al cuore la rabbia dei genovesi, il fatto che le lacrime versate in pubblico, sotto ai riflettori, siano state poche in confronto alla voglia di comprendere, di sapere non tanto chi ha provocato il disastro quando di cosa accadrà domani. Perché, in fondo, lo sanno già che passeranno mesi, anni probabilmente, prima che si metterà davvero mano ai fiumi che scorrono sotto la città e li si mettano in sicurezza. Tutti noi genovesi sappiamo in quale territorio sono costruite le nostre case, una in braccio all’altra, senza respiro, laddove il suolo ha concesso un minimo di spazio. Si fa presto a parlare di cementificazione selvaggia, bisognerebbe fare un giro a Genova per rendersi conto che l’intera città – e l’intera Liguria – non è stata edificata su basi a prova di calamità naturale.
Resta il fatto che la tragedia ci ha tenuti incollati al Web e che, ancora una volta, il Web è stato testimone del disastro, ha dato l’allarme. Anche grazie ai media locali, minuto dopo minuto i genovesi hanno fornito informazioni sulle condizioni delle strade in cui abitano. Siamo il popolo di Facebook e Twitter, no? E allora la voglia di comunicare, di essere in contatto con chi vive le stesse identiche paure diventa lo scopo primario. Forse qualcuno si è salvato grazie al progresso, non è uscito per fare la spesa, ha chiamato i figli per dire loro di rincasare subito, non ha lasciato il marito pensionato andare al bar a fare la solita partitella a briscola.
Posso soltanto immaginare l’ansia di chi ha visto in un attimola strada sotto alla finestra riempirsi di fango, detriti, auto, cassonetti galleggianti, magari pensando ai propri cari usciti qualche ora prima, sperando fossero al riparo magari in un androne dove qualcuno ha trovato la morte. Una morte tremenda, che nel 2011 non dovrebbe nemmeno essere concepibile.
Non dovrebbe esserci tempo per le polemiche, eppure sono scattate immediatamente. Il capro espiatorio, come di rito, è il sindaco, la stessa Marta Vincenzi, che – seppur con pregi e difetti, come qualsiasi essere umano – non si può accusare di non vivere di persona la città. Ha cuore, Marta. Questo i genovesi, anche quelli che non la possono soffrire, lo devono ammettere. Credo sia perché è una donna. Vive le cose senza quel distacco che spesso la politica si ostina ad avere. Non so quanti sarebbero andati a farsi insultare in mezzo ai cittadini sepolti sotto il fango, che avevano appena perso una casa, un negozio, un familiare, un amico. Le avevano detto di dare l’Allerta2 e così ha fatto. Troppo poco quel 2, ma in fondo se sei un sindaco dovresti poterti fidare di chi di circonda e ha le competenze per darti buoni consigli. O no? Certo, alla fine tu, sindaco, pagherai per tutti, ma è ovvio che ti stupisca se chi avrebbe dovuto avvertirti del disastro imminente se l’è cavata ricordandoti che sarebbe caduta una pioggerellina innocua come tante altre volte. Bastava chiudere qualche parco e ricordare alla gente che, in questi casi, forse è meglio evitare di spostarsi in auto? No, ma questo lo sappiamo adesso, come sappiamo che qualche imbecille non ha colto la gravità della situazione o non ha studiato abbastanza da saper leggere correttamente le cartine meteo e ricoprire la posizione che occupa.
Tra l’altro la polemica, oltre ai politici, ha coinvolto persino Luciana Littizzetto che ha osato provare a strapparci un sorriso poco dopo la catastrofe. Chissà se domani qualcuno sarà capace di prendersela non con l’anello della catena più vicino ma con i veri responsabili di quanto accade ogni giorno in Italia.
Il segreto sarebbe quello di non dimenticare, di non lasciare che la Liguria frani ancora e che ogni temporale d’ora in poi ci terrorizzi. Servono i fondi che non ci sono, servono teste pensanti e non architetti di fama internazionale che sperano di poter tramutare le nostre città in opere d’arte. Non ce ne frega nulla del domani se siamo tornati a ieri, se dobbiamo guardare le nostre case e chiederci se non sia più sicuro dormire in un castello di sabbia in riva al mare.
Intanto, piove. Sul bagnato.